Riportiamo un bell’articolo di Giancarlo Visitilli pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno il 2 Maggio 2021

Quando le tappe sono il deserto, il carcere, il mare e poi il Cara di Bari, «anche quando a un certo punto ti fermi, non credi che sia finito il cammino verso l’inferno. Mi ha salvato solo il pensiero di Ebima, mio figlio di un anno e mezzo che ho lasciato lì. Lui è l’unica mia forma di resistenza». Così ha raccontato Kemo Drammeh, un giovane gambiano che ha frequentato la scuola Penny Wirton di Bari, dove ha imparato l’italiano, ha preso il diploma di licenza media, riuscendo a conseguire anche il titolo di mediatore culturale, oltre che la patente. «Adesso, dopo una battaglia legale per avere la residenza e quindi la carta d’identità, lavoro in un negozio di mobili e ho una casa per conto mio ad Arnesano». A Bassé, la sua città d’origine, Kemo ha lasciato, insieme a suo figlio, sua moglie. «In questo momento sono distante da loro 6.378 chilometri e tutto ciò che faccio ogni giorno, è come se accorciasse le distanze fra me e loro, perché vivo per loro».

Kemo sostiene che «la più importante esperienza della mia vita è stata il primo giorno, a Bari, quando, in un pomeriggio piovoso, ho messo piede nella scuola Penny Wirton e mi sono sentito io pioggia: come se mi fossi sciolto, dinanzi allo sguardo accogliente e ai biscotti che mi ha dato la professoressa, Rosalina». Rosalina Ammaturo, dopo aver insegnato per anni al liceo Bianchi Dottula di Bari, da anni è volontaria alla Wirton, racconta che per loro volontari «abituati a lavorare in presenza in un rapporto a tu per tu, abbiamo interrotto forzatamente le nostre lezioni e lasciato le nostre aule dove, oltre a insegnare italiano, organizzavamo esperienze di condivisione che ci aiutavano a crescere come comunità meticciata. Finita l’estate, speravamo di fare lezione nelle piazze, nei giardini, per le strade della nostra città, invece abbiamo dovuto riprendere a insegnare a distanza. Abbiamo organizzato un piccolo presidio in una piazza cittadina e abbiamo accolto studenti vecchi e nuovi, spiegando come avremmo fatto lezione. Adesso siamo 30 volontari e seguiamo 40 studenti provenienti da tutto il mondo. Tutto il mondo in uno schermo». Da questo mondo è passato Kemo, scappato dal suo paese per essere un attivista politico «in un paese di dittatori militari e violento. Quando io sono partito da lì, Ebima aveva un anno e mezzo, adesso ne ha sei. Lui dormiva, era di notte, l’ho baciato e, dopo aver preso uno zainetto con il solo occorrente, ho detto a mia moglie di prendersi cura di lui, che un giorno li avrei raggiunti». Come tanti suoi compagne e compagni, Kemo paga i trafficanti di umani, «cinquecento dòllar» per passare i confini con il Senegal, e poi in pulmino per il Mali, «poi dovevo scegliere fra il Niger o l’Algeria, ma c’era il Burkina da passare e lì c’era stato un colpo di Stato, e allora ho preso per l’Algeria, sebbene dovevo traversare il deserto». Qui, Kemo, racconta di aver «vissuto la peggiore sofferenza della mia vita: siamo stati attaccati da una banda coi mitra, ci hanno sparati, perché non avevamo altri soldi da pagare per attraversare il deserto. Le donne sono state violentate e poi uccise. Ho visto, per giorni, accanto a me, i cadaveri delle mie compagne e dei miei compagni, anche bambini, che cambiavano sotto il sole, mentre io mi sono finto morto, per non essere colpito dalle armi».

L’altra esperienza, «che anche studiando ho dovuto ricordare, mentre facevo lezione di Costituzione italiana, è stata quella dell’interrogatorio in carcere. Ero torturato, con le scosse elettriche nelle gambe e nelle scapole. Mi hanno picchiato selvaggiamente, mi hanno messo in un container con ghiaccio, perché volevano che parlassi. Per settantadue ore mi hanno tenuto attaccato, con gli occhi davanti a una luce accecante. Ma non ho parlato. Adesso voglio solo dirti che sono libero, e non solo da quei luoghi. Sono libero perché il viaggio da Trapani, poi Palermo e fino a Bari mi ha portato in un altro inferno, il Cara di Bari, dove ho resistito per tre anni. Fra l’ammasso di persone, in stanze sporche e fatiscenti, con bagni in disuso e sempre sporchissimi, il cibo che non era affatto quello a cui siamo abituati, per cui, spesso ci sentivamo male. Non ho mai sofferto così il freddo come nel Cara, perché noi alle temperature così basse non siamo abituati. Però, lì ho imparato ancora a resistere. Lo dovevo a Ebima».Nello stesso luogo, Kemo incontra un mediatore culturale, Morteza, che gli dice «devi studiare, devi studiare». E così è stato. Dopo la Penny Wirton, Kemo ha continuato a impegnarsi «perché voi pugliesi vi eravate impegnati per me», ed è diventato lui mediatore culturale. «Fra le cose che un giorno porterò con me, le lezioni nelle scuole dei vostri bambini, dove ho spiegato la storia dell’Africa e del mio paese. Di quanto sia importante studiare. Perché studiare salva. E io mi sono salvato grazie alla scuola e agli insegnanti di Bari. La stessa cosa che dirò a Ebima, spero prima che abbia la vostra stessa età».


0 commenti

Lascia un commento

Segnaposto per l'avatar

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *